Al triplice fischio – Maiatico FC 1983 IX episodio (Luca Farinotti)

Eravamo rimasti, al parcheggio della “Conca”, io, Lupo e Titén.

I loro sguardi nel silenzio mi mangiavano vivo.

Risalendo la strada verso Maiatico – eravamo come al solito tutti e tre appaiati – Grassi disse che si sarebbe fermato alla “Sevra”, l’osteria-tabaccheria del paese, a comprar le sigarette.

Parcheggiamo nello spiazzo antistante: “Dài, Luchén! Vieni dentro anche tu, che becchiamo le paglie”.

Grassi, per coinvolgermi nel malaffare, cercò di darmi una certa importanza affidandomi il compito di scegliere il tipo di paglie che poi lui (essendo il più grande) avrebbe comprate. Ne sono ingenuamente sedotto e comincio a passare in rassegna le mensoline delle sigarette. Mi trovo in una di quelle situazioni in cui, per apparire più sicuri di se stessi, si tende a dar fondo a un’originalità innaturale, e compio una scelta estrema, l’unica in grado di non farmi sembrar nuovo della cosa: pacchettino blu, leggi Rothmans.

Grassi e Tito sono allibiti, non sanno più dirmi se principiante o dissimulato professionista del fumo, aumentando la mia predisposizione al primo tiro della mia vita.

Ci dirigiamo verso il campanile all’ombra del quale siamo cresciuti e zitti zitti ci si arrampica sul fienile del prete a cercar un po’ di riparo.

Dopo le spiegazioni di rito, Grassi accende.

Poi anche Tito, per darmi coraggio.

 

(…omissis…)

 

Una settimana dopo fumavo un pacchetto di Camel al giorno, scorrazzavo con l’Aprilia per le strade del paese con una paglia tra le labbra, e le ragazze mi guardavan tutte un po’ spaventate e affascinate.

Lupo diceva che la paglia in bocca mi faceva sembrare un cow boy, ed io ci davo dentro, in sella alla mia moto nuova.

Mi sentivo un re, ma spesso il re muore e un assommarsi di circostanze sfavorevoli può rendere ancora più amara la débâcle.

In quel periodo, infatti, il mio amico “delle stelle” – diceva lui – Andrea Floris mi aveva segnalato all’allenatore delle giovanili del Sala Baganza, che non aveva giocatori d’attacco nel vivaio. Questo tal Bigarelli un sabato viene a vedermi al campetto, nota i miei piedi buoni e durante la pausa-merenda mi propone un provino con la sua squadra. Non ero mai stato troppo attratto caratterialmente dal giocare in una vera società, ma le lusinghe del mister mi caricarono a dovere e, solo due giorni dopo, mi allenavo con il Sala, insieme ai calabresi della “Conca” e agli autoctoni della “Sevra”.

Ai primi allenamenti destai sensazione, tanto che la domenica del mio esordio, con grande sorpresa di tutti, mister Bigarelli mi schierò subito da titolare, onorandomi della maglia numero dieci e sovvertendo le gerarchie dello spogliatoio.

Scesi in campo – avversario il Fontanellato, in maglia nera – con addosso il rancore di alcuni compagni di reparto, che non avevano digerito l’esclusione del Ferro dall’undici partente, e con le gambe appesantite dalle venti camel che m’ero fumato durante la mattinata al bar “La Coccinella”.

Dopo uno splendido assist smarcante per il Ghiro nei primi minuti, non vidi più il pallone, e subii la sostituzione al 30’ del secondo tempo, subissato dai fischi del pubblico. Mentre guadagnavo la doccia lasciando i miei compagni sullo 0-0 mi sentivo come i grandi campioni – ero il n° 10, ça va sans dire – che incassano bordate di fischi ingenerosi per aver sbagliato una partita dopo decenni di gloriosi successi (io, di glorioso, avevo le aspettative sul mio futuro e la presunzione di essere un grande giocatore).

Lo 0-2 finale fece infuriare Bigarelli, che mi bestemmiava nelle orecchie come un ossesso, chiedendomi che cazzo avessi fatto per essere così molle e che porca puttana pensassi nella mia zucca di cacca per andare in campo a fare la bella statuina. Provai ad accusare il centrocampo di avermi ignorato (adesso mi guardavano anche più cattivi di prima), ma Bigarelli replicò di chiudere quella fogna (la mia bocca, n.d.r.) e che mi avrebbe tenuto d’occhio.

Gli dissi di andare affanculo, ma piano piano piano, che lo potessi sentire solo io.

Purtroppo Bigarelli ormai mi aveva inquadrato e mi tenne sott’occhio per davvero. Il mercoledì successivo arrivai all’allenamento un’ora prima, in moto, e mi incontrai al parco vicino allo stadio con la Monica e la “Rossa” (gran bella gnocca) per dargli le ròtmans e per spassarmela un po’ con loro.

Mi fumai un pacchetto intero e avevo esagerato, perché la testa mi girava e avevo il voltastomaco e stavo per svenire, ma andai comunque ad allenarmi, quasi certo che Bigarelli mi avesse spiato mentre ero nell’erba del parco con la “Rossa”, le sigarette e quant’altro.

Comincio l’allenamento boccheggiando.

Dopo dieci minuti sono colto inesorabilmente da crampi, Bigarelli correndo verso di me che grida: “T’ho visto oggi, porca puttana ladra fottuta, sei un pezzo di merda, sei fuori! La tua carriera qui è già finita, fila a casa, brutto stronzo!”

Non riuscivo a muovermi e mi vergognavo come un ladro.

Avevo voglia di piangere, ma sarebbero state lacrime di coccodrillo, così, aiutato da Floris, andai a far la doccia bella calda e scappai a nascondermi a casa.

Giurai a me stesso che sarei tornato (prima o poi), cambiato dentro e fuori, e che dovevo abbandonare la vita viziosa che stavo intraprendendo fin troppo giovane.

Tornai, infatti, alcuni mesi dopo, presentandomi al campo in gran spolvero, col ghigno di chi c’è alla grande perché s’è allenato in solitudine cinque volte alla settimana per riconquistare il posto in squadra (fetta!).

Era la seconda o la terza giornata del girone di ritorno e s’andava in trasferta a Polesine Parmense, quartultimo in classifica, che doveva essere tenuto a distanza strappando almeno un pareggio (il Sala era quintultimo).

Munito di ars oratoria in dosi elevate, entrai negli spogliatoi, porgendo le mie scuse alla squadra per le brutte parole che avevo dette e all’allenatore per averlo tradito. Gli giurai, tradendolo subito di nuovo, che avevo smesso con le paglie. Fui subito riaccolto a braccia aperte, con fin troppo calore: la squadra era messa molto male e tutti erano pronti ad attaccarsi ad ogni appiglio, dimenticando anche il passato.

Due allenamenti e, domenica, a Polesine.

Era una giornata piovosa della Bassa che non c’è mai il sole, ma in tribuna c’erano un’ottantina di spettatori e in campo un clima di grande agonismo.

Loro volevano sorpassarci in classifica.

Noi dovevamo tenerli sotto ad ogni costo.

Fu una gran gara. Passò in vantaggio il Polesine al 25’ su rigore inesistente concesso per fallo di Mimmo (il nostro portiere) sul loro centravanti lanciato in porta. Mimmo era entrato nettamente sulla palla e ricordo le offese terribili che i genitori di alcuni miei compagni-tra cui il Cinghio, chiamato così da tutti in paese per il suo muso suino- accorsi a Polesine coi 127 e le alfa scassate, infliggevano alla mamma troia dell’arbitro, tanto che per alcuni istanti mi chiesi che cosa aspettasse, l’arbitro, per andare in tribuna a dargli a tutti.

Nel secondo tempo i nostri avversari tentarono di difendere l’esiguo vantaggio, ma all’85’, in mischia, calciai una stangata (credimi dai!) a colpo sicuro da un metro e mezzo che andò ad infrangersi sul palo, rimbalzò sulla coscia di un difensore e terminò in gol. Bigarelli era incazzato come un drago perché avevo sbagliato la mira e sfogava la tensione per il raggiunto pareggio prendendo a calci la panchina e sbracciando come un pazzo nei miei confronti (il tipico allenatore insicuro che non esulta ai gol ma si incazza di più perché si vergogna di far vedere che gode).

Portammo comunque a casa l’1-1 e, finalmente integrato in squadra (per la prima volta fui abbracciato dai miei compagni, e sentivo ch’eran sinceri) mi sentivo pronto per il gran ritorno, la domenica successiva, sul campo di casa, il Comunale di Sala Baganza, dove avrei giocato la partita della mia consacrazione riappropriandomi di un ruolo a me caro, quello del leader.

Una settimana dopo scendiamo in campo, una bella giornata di sole, davanti a circa 150 spettatori. Siamo in casacca completamente blu, con polsini e colletto giallo, ho il numero dieci sulle spalle e la fascia di capitano al braccio. Giochiamo col Pannocchia, ultimo in classifica, è il momento di sfoderare classe a catinelle e di convincere pubblico e tecnici, mi sento a mille.

I primi dieci minuti gioco mostruosamente bene, mi disimpegno con un paio d’aperture da manuale alle ali e strappo applausi a scena aperta; m’involo tra tre avversari in slalom e, al limite, tocco una vellutata filtrante per il Ferro, che spreca clamorosamente a lato. Al 23’ m’incarico d’una punizione dalla lunetta, calcio a effetto e faccio la barba al primo palo col portiere immobile; tutto molto bello, abbiamo in mano la gara e Bigarelli mi incita “Continua così!” dalla panchina, i ragazzi mi cercano spesso e tocco molti palloni.

Al 30’ scorgo mio padre che mi guarda truce dalla tribuna.

Gli avevo chiesto di non venire, perché ho paura di lui, di fare una figuraccia proprio davanti ai suoi occhi, ma lui è lì, e io mica posso uscire dal campo a dirgli “Ehi papà, ti avevo pregato di non venire, per favore torna a casa, che se non ci sei gioco meglio”.

Il primo pensiero, che mi soffoca, è quello di dimostrargli che sono un duro e so farmi valere. Poi, inevitabile e amaro destino, la mia attenzione diviene sempre più concentrata sulle sue espressioni, alla continua ricerca d’un cenno d’approvazione.

Sono intimidito, ormai mi volto a cercarlo ogni venti/trenta secondi, perdo malamente due palloni facili facili a centrocampo. Bigarelli mi chiede che puttana vacca sto facendo. Mi giro verso di lui alzando il braccio in segno di scusa: mi risponde di fottermi e di stare più attento.

Ormai sono in confusione, e al terzo pallone perso sulla tre quarti avversaria sono preso dal panico, inseguo il numero 4 e gli pianto i tacchetti sul polpaccio, facendogli schizzare il sangue sull’erba umida.

Dopo aver sedato la mezza rissa scatenata da questo mio gesto assurdo, l’arbitro estrae il cartellino giallo e mi chiede di girarmi per fargli vedere il mio numero di maglia, poi fischia la fine del primo tempo.

Negli spogliatoi Bigarelli fece un discorso di dodici minuti filati a un volume di voce che lo sentivano anche in tribuna, tutto rivolto a me. Mi disse che non mi capiva, che era deluso, che avevo giocato daddio venti minuti e che poi mi si era brasato il cervello, e poi mi disse che, alla prima cazzata, mi avrebbe sostituito.

Rientrando in campo, il loro numero nove venne verso di me per dirmi che al suo amico William, o Walter o qualcosa del genere, gli avevano dovuto dare 6 punti di sutura e che prima della fine della partita mi avrebbe rotto il culo.

Come prima cosa cercai mio padre in tribuna. Era sparito (forse se n’era andato schifato), e già m’immaginavo quello che m’avrebbe detto, rientrato a casa: “Cosa ci vai a fare?”, lapidario e freddo, come al solito.

La mia tensione era sul punto di esplodere, ma volevo giocarmela quella cavolo di partita, fino in fondo – ci vuole ben altro, come sai, per fermare…

L’istinto creativo mi teneva ancora su e, sullo 0-0, poteva succedere di tutto.

6’: punizione dalla tre quarti, sulla fascia sinistra per il Pannocchia, cross altissimo, uscita a vuoto di Mimmo, testa del loro numero 9, gol.

Mentre tornano a centrocampo, l’autore della rete mi passa di fianco sputandomi una pallottola di saliva tra il collo e l’orecchio.

In svantaggio a sorpresa cominciamo a schiacciare gli avversari e li teniamo chiusi d’assedio nella loro area per almeno sette o otto minuti. Io sono annichilito, ma, trascinato dal furore agonistico dei miei compagni, riesco a partecipare ordinatamente alla manovra.

13’: sul limite della loro area sto per servire Valenti, quando m’arriva il 9 avversario da dietro, mi ficca il gomito nella scapola, mi soffia il pallone e decolla in un solitario contropiede, chiama Mimmo fuori dai pali, dopo aver superato in dribbling anche il nostro ultimo baluardo, Vainer, che scivola via, tiro secco, gol.

“Questo è per te, figlio di puttana!”, m’indicava col dito il goleador del giorno, attorniato dai suoi.

Neanche il tempo di battere da centrocampo che si crea un’azione confusa, mi ritrovo faccia a faccia con il nove pannocchiese, non guardo nemmeno dove sta andando il pallone, miro preciso, lucido come un sicario che si rispetti e gli conficco la punta del mio scarpino tra costole e addominali, dritto nel fegato.

L’arbitro accorre ad accertarsi delle condizioni del ferito, io ho tutti i suoi compagni intorno che vogliono ammazzarmi e i miei che cercano di proteggermi, vengo sballottato, vengo anche colpito da qualche schiaffone e insultato come un delinquente, non sento più nulla, mi buttano via, ma non sento più nulla – son dentro a un quadro che mia madre mi ha dipinto ch’ero piccolo, e al centro c’è un grande albero di mele e un sacco di bambini gioiosi, chi arrampicato, chi no, raccolgono cestoni di mele rosse rosse, e molte di più di quelle che l’albero può contenere, e ce ne sono ancora tante anche sui rami, e ci son dei piccoli paesi sulle colline verdi verdi e piene di cipressi in file pazzescamente geometriche, e la chiesina con un bel campanile giallo, come le case, che han quasi tutte il tetto rosso; e poi c’è il cielo più bello che io abbia mai visto in tutta la mia vita, che c’ha un crepuscolo di fuocherello giallo vicino alle colline per diventar fino a indaco elegantissimo sul bordo della tela (quante, quante volte sono stato in quel posto…)

Cartellino rosso diretto.

Guardai verso le tribune per cercare un conforto, almeno, nell’assenza di mio padre, Floris mi diede una scoppoletta d’affetto sulla nuca, accompagnandomi verso i bordi del campo. Passai dinnanzi a Bigarelli, che mi urlava fortissimo ma non lo sentivo. Gli gettai la fascia di capitano, poi mi tirai fuori la maglietta dai calzoncini e me la portai al volto, passai davanti alla panca del Pannocchia che mi sputava e m’insultava, mentre, a testa bassa, uscivo, per sempre – triste,  solitario e final – dal Comunale di Sala Baganza.

Qualche giorno dopo, infatti, mi comunicarono che ero stato squalificato per tutto il resto del campionato.

 

Negli spogliatoi feci una lunga doccia caldissima, fumosa, fino a quando le lacrime che mi scendevano a dirotto non si esaurirono completamente.

Poi mi rivestii con calma e uscii a vedere gli ultimi cinque minuti di partita, ma non aspettai il triplice fischio che sancì lo 0-2 definitivo.

Mio padre mi aspettava a casa con aria sorniona, mi chiese com’era andata, gli risposi: “Due a zero per noi, ho giocato un secondo tempo da favola”.

Rimase un po’ in silenzio, poi commentò: “Sono stato quasi fino alla fine, brutto bugiardo deficiente! Mi ero solo spostato in un altro posto della tribuna perché non sopportavo due vecchi stronzi che continuavano a bestemmiare contro l’allenatore, reo di averti messo in campo”.

(Bigarelli – maldìt lù e c’la zlatabéghi ’d sò moiéra – fu esonerato quella sera stessa).

Lo Stadio più bello del mondo, luca farinotti, Maiatico

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