Gli stranieri – Maiatico FC 1983 III episodio (Luca Farinotti)

III (Gli Stranieri)
La primavera dell’85 fu contrassegnata dalle prime sfide stracittadine, dette anche dèrbi.
Tutte le compagini che salivano a Maiatico con l’intento di sfidarci ricevevano un caldo benvenuto ed un memorabile commiato.
Il fatto è che, arrivando al campetto, chi dal paese, chi dalla città, c’inoltrava gli stessi lagnosi commenti, indistintamente rivolti alle dimensioni del campo.
Si doveva giocare sei contro sei, gli altri 5 rimanevano fuori.
Poi, con sarcasmo si passava alle porte, senza rete, e all’assenza delle linee di gesso per delimitare il campo, e al fatto che mancavano gli spogliatoi (e continua…continua…).
Ascoltavamo tutte le lamentele, ogni volta senza ribattere una sola parola, poi si cominciava a giocare.
Per le occasioni in cui salivano gli Stranieri avevo selezionato una formazione tipo che, a meno di defezioni dovute a febbre e/o studio, doveva essere sempre quella. Vedeva il Vincio a difesa della rete, Lupo, Tito (che durò un solo match, inadatto com’era al furore agonistico) e il Férda in mezzo, io a giostrare e l’Azzon Faier delle meraviglie in avanti.
Premesso che il Maiatico F.C. in casa sua non le ha mai buscate da nessuno, mi piace ricordare una partita su tutte, in cui si diede fondo al nostro cuore di ragazzi cresciuti all’ombra del campanile, a fronte di avversari antipatici, sbruffoni, tronfi, insomma convinti di massacrarci.
L’epica sfida risale a un pomeriggio afosissimo di mezza estate.
Avevamo raccolto il guanto lanciato dai villeggianti della Parma-Bene che a Maiatico, rustica Beverly Hills, avevano la residenza estiva in villoni faraonici. Giocavano più o meno tutti in squadre di club – non di calcio, certo, piuttosto di rugby, golf o squash, o altre cose da snob – erano sprezzanti e altezzosi verso di noi, abitanti non-stop dei colli.
Ebbene, Villici contro Cittadini Educati nel primo tempo attacchiamo dalla Ovest verso la Est. Dopo pochi minuti (saranno trenta per tempo), Riccardo Maggi, asso indiscusso della squadra ospite, parte dalla propria area e si fa tutto il campo in palleggio, alternando coscia e piede, senza far mai toccare il terreno alla sfera, arriva incontrastato a cinque metri dalla porta e scarica all’incrocio una pavera demoralizzante.
Già siamo un po’ a disagio, intimiditi, questa giocata ci taglia le gambe.
Esultanza composta dei villeggianti. Passano cinque minuti e il timore reverenziale sempre più pressante porta Lupo a sbagliare un appoggio facile facile al Vincio che, a sua volta, invece di uscire rimane imbambolato tra i pali, si inserisce Fiscarelli che corregge in gol da un passo: 0-2 alla fine del primo tempo, abbiamo le gambe di gelatina.
Nell’intervallo si litiga e basta, e questo serve a scaricare un po’ di tensione ma certo non a cambiare l’inevitabile piega assunta dalla gara.
Proprio nel bel mezzo di quell’impasse ci s’avvicina Spotti Giuseppe, con ironia insinua: “SE VOLETE, NEL SECONDO TEMPO POSSIAMO MESCOLAVE UN PO’ LE SQUADVE, VISTO CHE SIAMO NETTAMENTE SUPEVIOVI”. Spotti veniva a Maiatico tutte le estati e nonostante i suoi sorrisoni con quella sua faccia di cazzo da pubblicità per dentifrici da college, nessuno gli aveva mai accordato il saluto. Grassi ed io ci guardiamo negli occhi, non c’è bisogno di parole, mentre mi alzo in piedi rispondo alla provocazione di Spotti: “Ma parla come mangi!” e mi avvio verso il centro del campo.
Ripresa: attacchiamo verso la Curva Ovest, ci riscaldiamo con qualche entrata pesante, qualcuna fallosa, ma Spotti ci ha colpiti nell’onore campagnolo, soprattutto me e il Lupo, ci diamo dentro, pressiamo, non tiriamo mai indietro la gamba, non riusciamo a tirare in porta, d’accordo, ma nemmeno più loro, si gioca a centrocampo, si picchia duro, adesso è una vera partita.
Io gioco molto più arretrato, aiuto il Férda a coprire, non passano più.
Al 15’ l’Azzon entra in percussione sulle gambe di Fiscarelli, il pallone schizza verso Lupo, lasciato colpevolmente solo al limite dell’area: ci prova, ciabattata di sinistro, palla colpita insieme a sei zollette di terra raccolte con l’alluce e il medio che gli fuoriescono lividi dall’Adidas bianca, la traiettoria è sporchissima, terra in faccia agli avversari e palla nel sette, incredibile gol!
Godevo nel veder esultare il Lupone, con la sua magliettina bianca sudatissima, le gambe storte e pelose che saltellavano felici sul nostro campo, la sua faccia da lupo mannaro digrignante.
Ci lasciamo prendere da una gioia doppia: gol-gol del Lupo (ci stringemmo tutti in un abbraccio che ci faceva capire quanto ci volevamo bene se ce ne fosse stato il bisogno, e fummo schizzati dalla bavetta e insudiciati dal sudore di Lupo, ma era stato un gran bel gol, accidenti).
I Villeggianti, con supponenza e distacco, riportarono il pallone al centro del campo. Tentavano di mantenere il controllo, dialogando palla a terra di prima, ma ormai lo facevano solo per linee orizzontali, perché gli avevamo chiuso tutti i corridoi e ci stavamo appropriando del campo; pian piano cominciavano a perdere la calma, noi a convincerci in un forcing tambureggiante – ma entriamo in cronaca diretta: manca poco alla fine, ci crediamo, vogliamo il pareggio, lo meritiamo tutto quanto; tiri su tiri, ravvicinati, da fuori, miracoli in serie del loro portiere, corner a ripetizione per noi, cominciano a mandarsi affanculo tra loro, i Lords, stiamo dominando.
Mancano quattro minuti quattro alla fine sul cronometro di Lupo, che per queste cose è, maledetto lui, fiscale per principio, non bara mai – se ce l’avessi io, il cronometro, allungherei spudoratamente i tempi – ma quel ch’è giusto è giusto, giusto che sia lui l’arbitro, il Capo, non io.
Azione confusa in area Cittadini: batti e ribatti, c’è anche il Vincio, venuto incautamente a dar man forte; la nostra porta è vuota, il pallone rimbalza sul Férda che, nel goffo tentativo di addomesticarlo, s’inventa un dribbling sul portiere, ma s’allarga a sinistra e va lungo verso il fondo, da lì non può tirare, arriva Agnetti in scivolata, snervato, gli lascia i tacchetti infilati nella gamba – c’è il Férda a terra che urla “È FUALLO! CUAZZO! È RIGUORE!”, volano offese e spintoni, ci si insulta di brutto, il Férda è sanguinante, vogliamo il pènalti, non ne vogliono sapere, oltraggiano il Férda con ingiurie pesanti (“pecoraio puzzone”), sbotta il Lupo, Giuridico, col rigurgito innescato: “BASTA! È RIGORE!”
Il tempo è già scaduto, o pareggiam o siam fatti.
M’incarico del tiro, sistemo il pallone a terra, sono tutti zitti, il portiere mi guarda e deride, io sono pronto, breve rincorsa, e giurosuddio, una fucilata che non la vede neanche (!) tocca la parte inferiore della traversa vicino all’incrocio ed è già gol, gol, gol, gol e poi gol, maledetti snob.
Due a due, tempo scaduto.
Il Vincio è il primo a dirlo, e noi siamo tutti concordi: va bene così, pari e patta, e ripariamo il Férda con calma. Ma quelli adesso sono troppo arrabbiati, insistono per giocare altri cinque minuti, e chi fa il terzo vince. Il Lupo non vorrebbe, io così così, ma decide il Férda: “Va biene. Giuoquiamo”.
Battono, intervengo come un ossesso su Agnetti sradicandogli pallone e peli, infilo fulmineo un assist da favola all’Azzon che è scattato in avanti, controlla, si gira, botta a mezz’altezza e – CIAO! – è di nuovo gol.
Adesso è un tripudio di “ombrelli”, di “salami”, diti medi e vaffanculo, di goduria pura, primordiale.
Vedevo l’Azzon col gomito piantato sull’inguine, l’avambraccio spianato e il pugnetto stretto – quale simbolo più cazzuto che l’esultanza d’un pedatore? Mi ritrovai così immerso in quel momento da oltrepassarlo, da uscirne dalla parte opposta, e divenire per un istante testimone super partes di quell’avvenimento. In un solo fotogramma c’era chi gode e c’era chi soffre, punito, c’era una vasta gamma del sentire umano, tutto sovrapposto a pochi centimetri di distanza, eppure abissalmente distanziato per qualità e tipologia di sensazioni, la contemporaneità dei concetti di bene e male in un solo organismo vivente, il campo da calcio.
Mi riebbi, corsi ad abbracciare l’Azzon che, da quel giorno fu soprannominato L’Implacabile.
I miei compagni mi sentirono affermare ad alta voce, sovrappensiero, “Fa’ tì! Fa’ tì! Fa’ tì!”: mi stavo chiedendo mentalmente se il calcio fosse la cosa più bella che c’è.
La domenica seguente a quell’incontro eroico ci arrivò, tra capo e collo, Andrea Mora, ridenominato dall’estro tribale del Férda “O’Mora”, alla carioca, o all’irlandese se preferite, o se preferite ancora alla partenopea.
Era un tardo pomeriggio di sole, il terreno era in buone condizioni ma non erano previsti incontri in cartellone. Io stavo tirando due calci al pallone in compagnia di Grassi e del Férda e quando Mora imboccò spavaldamente il vialetto-parterre con la sua Fantic 50 rossa da trial, non lo degnammo più di tanto, giusto per mantener segnato il territorio.
S’era appena trasferito dalla città in un villone nuovo su tre piani in cui si sentiva l’eco a causa degli spazi sconfinati, era venuto a conoscerci a cavallo della sua motina irriverente.
Fu don Don a presentarcelo, e questo è un un paradosso, perché O’Mora, nonostante i suoi acerbi tredici anni, aveva già “la politica da circolo” stampata in testa e suo padre Gianyuri era comunista di brutto, nonché mangiapreti. Poi s’era fatto una casa da tre miliardi e girava coi macchinoni e aveva una fabbrichetta. Noi ch’eravam di destra, come ci aveva insegnato il nostro capo Lupo, al suo confronto sembravamo dei demoproletari.
O’Mora sapeva d’arrosto e deodorante, e noi lo guardammo con distacco e un po’ d’invidia, per via della moto (non di certo per la faccia o il profumo).
Giocava in una vera squadra, la Juventus Club Nordemilia, da mediano di spinta e aveva fatto un provino al Milan, ma i suoi non volevano che si trasferisse a Milano, per lo studio più che altro. Era basso e mingherlino e aveva una faccia da sottaceto nasuto sovrastata da un ciuffetto biondiccio sparso d’innumerevoli microframmenti di forforina sottile – in seguito fu anche chiamato, per un certo periodo, soprattutto da Tito, “Forforaio”. Per finire, sfoggiava una camminata alla Fonzie, da incubo: baricentro basso, gambe piegate con le ginocchia in fuori, da calciatore, schiena proiettata all’indietro, sguardo da Sapientino e sorrisino da sberle a randa.
Il disastro è che, nonostante cercassi di darmi un certo tono tirando delle fucilate disinteressate addosso al Férda e stando sulle mie, mi fu simpaticissimo fin dal quel primo incontro e diventammo presto amici inseparabili.
Penso che l’emblema dell’amicizia che seguì è racchiuso in un pomeriggio in cui ci trovammo al campo, inzuppato da due settimane di pioggia, per fare un tête-à-tête futbolistico. Giocammo uno contro uno nel fango per due ore, spingendoci, picchiandoci, inciampando e rotolando nella terra bagna, che ci affondavi dentro venti o trenta centimetri, sempre coll’intento rivolto alla grande prodezza stilistica, che fosse un bel fallaccio da dietro o un tiro all’incrocio dai trenta metri non importava.
Lasciammo il campo impraticabile per un mese. L’avevamo arato.
Era quel tipo di amicizia in cui il senso di rivalità, la simpatia, la confidenza, la stima, l’affinità e l’invidia erano tutti ingredienti ben dosati, e questo ti dava quell’inequivocabile senso di sicurezza e di equilibrio in virtù del quale scegli la persona con cui fare tutte le prime esperienze proibite dell’adolescenza.
Con Mora, infatti, feci le mie prime partite ai Videogheim, che in casa mia erano banditi (ne aveva uno di arti marziali da lasciarci delle giornate), feci i miei primi partitoni a Risiko – roba da sballo, perché cominci a divertirti da adulto e avverti il salto di qualità – e vidi i miei primi pornazzi.
Assolutamente leggendario Orgasmo Non-Stop, con Marina Frajese che orchestrava orge etniche in una tenuta sui colli di Roma (la pellicola presentava una colonna sonora elegiaca e scene di sesso rurale che ci forgiarono splendidamente lo sviluppo emotivo). Non da meno fu Kora, videotape che si consumò letteralmente nei lettori VHS di casa Mora-Grassi-Fabielli e mia. Kora era una pazza che soffriva di doppia personalità, mogliettina ideale di giorno, e puttanone colossale di notte. Dopo quel film non puoi più avere un rapporto normale con le donne. E infatti, più o meno traumatizzati o plagiati, io e O’Mora, con le nostre prime morosine rigorosamente condivise cercavamo di riprodurre le sequenze evinte dai suddetti “films” (come amava scandire Andrea, per dare un’impronta più accademica al tutto) o dalla consultatissima letteratura specializzata, da Blitz a Playboy, da Le Ore a Le Ore Collection, testi dai contenuti indubbiamente edificanti.
Come si sa, l’amicizia ha anche i suoi lati negativi, e lo scotto più pesante che dovetti pagare fu la riammissione nel gruppo – che Mora aveva cominciato a chiamare “la Cumpa” – del Bottio.
Due erano le persone da sempre malvolute e disprezzate al campetto: il primo era il Vincio, a cui tutti cercavano di fare del male durante le partite perché manifestava una reiterata ribellione alla gerarchia instaurata da Grassi, che voleva i più piccoli sottomessi (non accettava di essere relegato al ruolo di portiere e spesso sfidava con lo sguardo e le parole sia me che Lupo, ma nonostante le pesanti ritorsioni, resisteva e tutti i sabati si ripresentava puntualmente al campetto, a volte con sua madre).
Il secondo era il Bottio, perché era il Bottio. Silenzioso, balbuziente, quando parlava anteponeva uno schioccante “KMH” ad ogni frase, e di tanto in tanto grugniva. Era appassionato di armi e di film dell’orrore. Fisicamente era un torello, nemmeno brutto, ma il Capo lo aveva sfottuto da sempre, senza un vero perché, e noi adeguandoci all’esempio del Lupo, lo avevamo trasformato nel nostro zimbello, nel bersaglio di tutte le cattiverie che tendono a fuoriuscire per natura da un bambino.
Era stato bandito dal campetto anni prima, un pomeriggio piovoso in cui, con la speranza di essere ammesso a giocare, s’era presentato a bordo di una minimoto verde smarmittata. Non era ancora smontato, quando Grassi diede il la, adenoidoso come sempre, ad una canzoncina estemporanea di benvenuto: “Bottio coniglio / ti taglieremo il grillo …Bottio coniglio / ti taglieremo il grillo!” E di seguito: “Dài, ragazzi, tutti con me, forza! Bottio/Coniglio…”
In pochi secondi il campetto si trasformò in una Corale. Il Bottio sgommò maldestramente, rischiando una caduta che sarebbe stata fatale ad ogni sua futura velleità di farsi vedere in giro (in alternativa gli sarebbe rimasto solo l’esilio a Sant’Elena): per un miracoloso intervento divino riuscì però a tenere in piedi la moto e a scomparire con onore sotto la pioggia.
Lo incontravamo saltuariamente, quando si andava a palpare le tettone alla Sèvi, che era la sua amica del cuore – infatti, era l’unico pollo a non fare cose sporche con lei – arrivavamo coi motorini e lui faceva quasi sempre in tempo a sgusciare via, passando dal lavatoio.
A volte invece non riusciva a dileguarsi ed era costretto a subire le feroci ingiurie di Grassi prima di potersi guadagnare il commiato.
Fu in una di queste occasioni che, spinto dall’irrefrenabile frenesia di cinismo del Lupo, e pervaso da un improvviso rigurgito dei miei primi mesi di liceo classico, inconsciamente connessi alle suggestioni suscitatemi dalle ripetute visioni di Kora (versioni di greco e filmini hard si alternarono ritmicamente nei miei pomeriggi, per un certo periodo), lo saluto così: “Ciao, Bottioni, o in greco antico βοττιονοί, per meglio dire Οι̉ βοττιονοί, il bevitore di spermatozoi”.
Ci ripenso un attimo, quindi rettifico: “Anzi no, meglio Divoratore, giusto: Òi Bottionòi, divoratore di spermatozoi”.
Si mise a posto il cavallo dei pantaloni per padroneggiare la situazione, poi disse deciso “KHM”, per mettere le cose in chiaro, e corse via.
Da quel giorno non lo avevamo più rivisto, fino al momento in cui O’Mora lo riammise d’autorità nella Cumpa e, quindi, anche al Parrocchiale.
La riabilitazione del Bottio al campetto rivelò per la prima volta un segreto clamoroso, fino a quel momento impensabile, che riguardava il nostro Capo: era diventato succube, a mia insaputa, di O’Mora – per il fatto che, lo si seppe in seguito, O’Mora aveva il Moncler, un vero HI-FI coi dischi di Whitney Houston, Paul Simon e i Pink Floyd, la moto e tutto il resto, attributi che generavano un’ammirazione incontenibile nel Lupo (soprattutto il Moncler).
Dopo questa abominevole scoperta – trapelata dall’aver accettato senza riserve la riproposizione del Bottio al campetto e suffragata, in seguito, da una progressiva e mortificante sudditanza di Lupo nei confronti di O’Mora – Grassi dovette ammettere la sua colpa e subire gli oltraggi dei piccoli e le derisioni dei più grandi.
Fu accompagnato da noi tutti sul Golgota della sua inettitudine e gli fu appioppato, sulla croce, dal truce soldato Tito, un soprannome terribile che si portò tristemente sulla gobba per sempre e che non venne risparmiato nemmeno all’altro ladrone, il Bottio: da quel giorno furono chiamati, con l’ineluttabilità d’un marchio, “M.D.”, i Mora Dipendenti.
Grassi non era più il Lupo e, quanto è vera la vergogna, non era più il nostro Capo.