Il gol della vita – Luca Farinotti

Andrea Martis era un ottimo calciatore. Molto tecnico, altruista, capace di fare squadra e spogliatoio, disponendo di un grande spirito di gruppo. Coraggioso e fino alla fine, vendeva carissima la pelle. La sua caparbietà lo portava spesso a mettere in campo una grinta e, talvolta, una cattiveria esagerate, che non potevano essere giustificate, mai, dall’esigua posta in palio.
Ciò lo faceva apparire umanamente meno virtuoso di quello che in realtà era.
Conobbi Andrea Martis al liceo, una mattina soleggiata di settembre, il primo giorno di scuola. Aveva l’aria di un signorino, coi capelli biondi perfettamente in ordine, la camicia a righe, i pantaloni chiari e i mocassini lucidi neri. I suoi occhi erano appassionati e vivi, azzurri e brillanti, da poeta triste e pieno di dignità, come se portasse un enorme bagaglio di esperienze e ne fosse solcato nel profondo. Era poco più che un bambino, ma aveva viaggiato il mondo, per via del lavoro di suo padre, che era un ufficiale di ventura sballottato di città in città, di stagione in stagione.
La sua famiglia aveva abitato ad Albenga, dove Andrea aveva acquisito la passione per il mare, per la pesca e per le cose esoteriche, a cui era stato iniziato da un’anziana coppia di misticissime persone qualunque. Poi a Siena, dove aveva imparato la magia del Palio e del fanatismo di contrada, dove aveva conosciuto l’amore e la luce della Toscana.
Erano stati in tante altre città. Da ognuna Andrea prendeva qualcosa, e molto gli veniva tolto ogni volta che doveva andarsene, più di tutto l’amico del cuore che faticosamente s’era coltivato, col doppio dell’impegno, della passione e della forza (sapendo a priori d’aver poco tempo a disposizione per costruire un legame concreto), ma anche con una buona dose di logica disillusione.
Quando Andrea arrivò a Parma, capitò nella mia classe e fu come se ci conoscessimo da sempre.
Io sarei stato il nuovo amico del cuore da cui Andrea avrebbe dovuto (prima o poi) dolorosamente staccarsi.
La nostra amicizia fu subito contrassegnata da questa consapevolezza, e una forza inconscia ci spingeva a rendere tutto, tra noi, più intenso e vissuto possibile.
L’apoteosi della nostra empatia si compì il giorno in cui scoprimmo d’esser la coppia perfetta nel giocare a calcio. Lui, grande assist-man. Io, goleador.
Andavamo a giocare ovunque e con chiunque, e facevamo piazza pulita.
Lui scorreva via sulla fascia col suo fisico magro e tutto nervi. Quando arrivava sul fondo, mi trovava in mezzo all’area senza nemmeno alzare la testa, solo per magia.
Ci riconoscevamo a occhi chiusi.
Calcisticamente eravamo Uno.
La classe più balorda della scuola, quella che arrivava sempre ultima ai tornei, era la nostra, in cui avremmo dovuto militare insieme almeno durante il ginnasio e poi al liceo, prima che io fossi segato a settembre. Regolarmente la tradivamo, per andare – talvolta in coppia, talvolta spaiati – a far gli stranieri in altre classi, assaporando così il sapore delle finali o della vittoria nel torneo interscolastico.
I nostri compagni infatti erano sempre stati in contrasto noumenico col gioco del calcio, nonostante alcuni di loro non volessero ammetterlo. Per esempio Carrà, il capoclasse, che puzzava spesso di brodaglia e aveva un alito da stendere un orso, ma si dava molte arie per via della sua faccia iperborea e credeva d’esser forte oltre che bello.
Gli altri, come Marco Mesini, Mario Radicchio e Giovanni Polipo se non altro erano più umili e ammettevano di non avere nulla a che fare col football.
L’anno dopo la mia bocciatura io e Andrea eravamo ancora più amici, perché mi era stato molto vicino nell’umiliazione che avevo dovuto (meritatamente) subire, ma io mi ritrovai in una classe piena di gente veramente forte a calcio. Il loro capitano, Beppe Bonetti (che mi aveva invitato tante volte in precedenza a far lo straniero con loro), mi elesse a leader della squadra. Non potei dir di no. Ad Andrea non sorrideva certo l’idea di andare a fare lo straniero in qualche classe senza di me, e decise che avrebbe tentato di mettere in campo una squadra decente usando i pochi elementi che aveva a disposizione nella sua. Così, per la prima volta, io e Andrea Martis (con gran dispiacere d’entrambi) ci saremmo trovati contro. Tutti e due pregavamo di non incrociarci durante il torneo. Tuttavia, per il fatto che il calcio e la vita sono strani, la sua Secondabbì vinse tutte e tre le partite di qualificazione, e la possibilità di uno scontro diretto cominciò a concretizzarsi.
Tutti pensarono che fosse stato un caso, oppure culo, e nemmeno io fui scosso più di tanto dalle loro tre vittorie consecutive. Una mattina controllai i risultati sul tabellone: condividevo simpaticamente la qualificazione alla seconda fase dei miei ex-compagni, considerato soprattutto che Andrea aveva già fatto un mezzo miracolo a portarli così avanti, ma li ritenevo comunque spacciati agli ottavi di finale, dove avrebbero incontrato la Terza E.
Io pensavo principalmente alla mia nuova squadra, e al fatto che fossimo i primi favoriti del torneo. Avevamo, ruolo per ruolo, i migliori giocatori della scuola.
Beppe Bonetti, un rasta con dei quadricipiti scolpiti che volava sulla fascia coi capelli al vento e sembrava Gesù, si era sacrificato in porta per far posto a me, il nuovo acquisto, rendendomi un grande onore. In questo modo Capitanelli, detto il Capo, o anche Bambocci per l’andatura un po’ meccanica, aveva retrocesso il suo raggio d’azione al fianco di Violo.
Poi c’era De Conati, con cui facevo gran coppia in attacco, e Martis forse ne era un po’ geloso.
In panca avevamo una sfilza di giocatori sfarzosi, come Arlotti, con cui Andrea Martis s’era preso a schiaffoni l’anno prima durante una partita, o Mahud Hamman Laden, che aveva i riccioloni alla Maradona e con passo felpato da iguana tapirato ogni tanto caracollava in gol stratosferici, o il buon vecchio Biancaccio, che era unto come il burro e aveva sempre una bolla gialla sulle mutande e a cui avevo estorto due racchette da ping-pong livello agonistico Stiga in una mano di poker durante la lezione di filosofia del prof. Montaldo (gran figlio di Troia, pace alla zàna della mamma sua).
Andrea Martis m’invidiava a morte. Lo capivo da come cercava di sminuire i miei nuovi compagni. Io, ovvio, tronfio di una presunzione monumentale, gli giuravo che “la Prima C vincerà il torneo e voi, la Seconda B? di voi non si parla nemmeno, perché coi vostri Polipo, coi Carrà, coi Mesini e quant’altri scoordinati buffoncelli borghesucci non avete scampo! e poi, soprattutto, dovete mettere in porta Ungaretti” (il quale aveva un’enorme cisti purulenta sulla guancia e bofonchiava come un bassotto assonnato, motivo per cui lo si soprannominava Cane, senza nemmeno l’articolo davanti).
Nel caso poi di un infortunio, la B non disponeva di panchinari di qualità, e avrebbe dovuto far scendere in campo Poverini, rinominato crudelmente Ragionier Filini.
Eppure quella classe disastrata vinse ancora e arrivò ai quarti di finale e venne sorteggiata contro la Prima C, la mia classe.
Noi avevamo agevolmente sbaragliato la concorrenza di Terza B, Quinta E e Terza D, e avevamo più o meno massacrato tutti mettendo in campo 6 inamovibili fuoriclasse: Bonetti, Sticchio, Capitanelli, Violo, Farina, De Conati e tanti saluti a tutti.
Le settimane precedenti la sfida pensavamo a tutto meno che alla molle Seconda B, e se si parlava di calcio lo si faceva per valutare chi eventualmente avremmo incontrato in semifinale.
Martis era teso, e non parlava volentieri, perché era sardo e bruciava dentro, in silenzio, quando lo sfottevo cadenzandogli il versetto “Quattro-a-zero-per-noi!”. Covava la vendetta. Smaniava dalla voglia di giocare contro di me e prevalere e sapevo che si sarebbe spellato pur di sconfiggere la primaccì, che lui reputava una classe di bastardi.
Il martedì e giovedì prima del big match non uscì con me e le sorelle Bocchi a far festa nei campi di Maiatico perché voleva mettere una distanza tra noi e restar concentrato, e non venne nemmeno il venerdì alla festa sotto il tendone a Berceto, e non servì dirgli che c’eran la pettoruta Sèvi e le sue amiche zàne che la davan via facilmente.
Passeggiava nella caserma del parco, dove viveva con suo padre, il colonnello comandante di tutti i caramba della città, e s’allenava con Carrà a tirar le punizioni nel campo della Legione.
Poi usciva coi cani da caccia a sgranchirli e li guardava da lontano con distacco, coi suoi occhi di ghiaccio pieni di brina.
Da quando ci eravamo conosciuti fummo in simbiosi nella vita e Uno nel calcio. Ora eravamo contro. Tra noi si stava scavando un solco, figlio di una rivalità crescente di giorno in giorno, di una competitività dove uno sarebbe stato la misura dell’altro, dove l’equilibrio perfetto che aveva da sempre governato la nostra relazione si sarebbe rotto, dove chi vinceva sarebbe inevitabilmente divenuto, con orrore, il Maestro dell’Altro.
Giunse il sabato del match. Scherzammo un po’ nel prepartita, nell’aria satura degli spogliatoi, poi uscimmo in campo. C’era Azeglio Cattoni, il vicepreside nazista col fischietto in mano, ad aspettarci nella sua ventennale tuta blu.
Alle finestre dei bastioni – quasi da carcere – che circondavano il campo-bunker sui quattro lati, c’era qualche spettatore e poi i giocatori di altre squadre assiepati dietro la porta difesa da Nicola Ungaretti.
Ebbi subito una sensazione strana, come di cattivo presagio. Non so come avesse fatto, ma Andrea Martis era riuscito a caricare i suoi compagni, entrati sul cemento del Romagnosi con una grinta da guerriglia. Francesco Carrà e Giovanni Polipo avevano addirittura la bandana in testa, e vedevo sui loro volti il sorriso del Matador che s’appresta ad infilzare mortalmente il toro.
Fui attraversato da un po’ di caga fugace, ma poi guardai verso la mia squadra e dimenticai l’incertezza: eravamo nettamente i più forti.
I ragazzi di Martis si buttarono subito avanti con coraggio e prevedibile abnegazione e sia Giovanni Polpo che Marco Mesini riuscirono a concludere da lontano e furono fermati da irriverenti parate di petto e a una sola mano di Beppe Bonetti. Martis, affidato alle cure di un ottimo Kalle Sticchio, era completamente imbrigliato. A nulla valsero le sue proteste e i tentativi di indurre Azeglio Cattoni a fischiare il rigore. Anche quando Violo venne ammonito per l’ennesimo intervento duro su Andrea, non cambiarono affatto le sorti dell’incontro (il cui copione prevedeva noi a costruire gioco e far possesso palla e loro a difendere tentando qualche sporadica ripartenza, sorta dal cuore più che dalla bravura). La 2ª B si rivelò comunque di molto superiore alle aspettative e ribattè colpo su colpo mantenendo inviolata la propria porta.
Allo scadere Capitanelli sbagliava un facile passaggio e consentiva a Polipo di involarsi verso il nostro corner di destra: cross preciso e colpo di testa di Carrà che batteva a sorpresa Bonetti per l’ 1-0.
Colpo di scena ed esultanza scatenata degli avversari, soprattutto di Cane Ungaretti, che saltellava abbaiando.
Violo urlò a Capitanini di ficcarsi i fili da burattino nel culo, e per un attimo gli animi rischiarono di surriscaldarsi, ma ci pensò Beppe Bonetti a dividere i due compagni. Poi sputò per terra, asciugando il silacco con la scarpa, e si fece passare il pallone con autorità, rimettendoci in riga.
I miei occhi e quelli di Andrea Martis si incrociarono all’intervallo, rientrando negli spogliatoi. Lui serio; io gli dissi: “complimenti, che un gol l’avete fatto” (volevo provocarlo e farmi vedere tranquillo, fu bravo a non raccogliere, sapeva che non eravamo più così sicuri…).
Durante la pausa, infatti, il nostro capitano tuonò in una brevissima predica rastafari ricordandoci che eravam più forti e basta e che Hailé Selassié non ci avrebbe abbandonato, poi scoreggiò sonoramente e disse: “Vamos!”
De Conati rispose con uno dei suoi rutti altisonanti e sferici, rientrammo con la concentrazione che ci era mancata sullo 0-0, ristabilimmo i ranghi con delle folate che infiammarono l’incontro ad altissima gradazione.
Subito, alla prima mischia, strenga ravvicinata di De Conati che superava Ungaretti, ma un provvidenziale intervento di Francesco Carrà sulla linea salvava; riprendeva Farina, destro secco, rasoterra, palo! Correva il decimo e cercammo di serrare i tempi: dovevamo pareggiare, loro si difendevano coi denti e le unghie ma si capiva che l’assedio era destinato a sfondare quando vidi che anche il centrattacco Martis si era attestato in difesa disperata insieme ai suoi compagni per proteggere l’esiguo vantaggio. Su cross di Tommaso Capitanelli, respingeva Carrà di testa, il pallone carambolava sulle spalle di Mario Radicchio, panico in difesa, inserimento di Farina, Martis cercava di spazzare svirgolando, parapiglia furibondo e uscita commovente di Nicola Ungaretti che si gettava sul pallone a sventare, rimettendoci un canino.
Gli uomini di Martis sembravano sempre sul punto di capitolare, ma tennero incredibilmente botta con generosità inaudita. Si guardavano continuamente con l’occhio feroce e concentrato, fiduciosi l’uno nell’altro.
Grondavo sudore a palate, incredulo, cominciavo a percepire la drammaticità della gara, e vedevo venirmi incontro una sconfitta incredibile.
Ma un istante dopo, il miracolo.
Improvviso, folgorante.
Mancava un minuto alla fine, ci fu un pallone controllato da Laden (nel frattempo subentrato a uno spento De Conati), uno-due con Sticchio, di prima per Farina, destro al volo e goooooollll !!!! incrocio dei pali da diciotto metri, tutto fulminante, fantastica esultanza e groviglio di giocatori su di me, una bolgia, poi insulti pesanti e smadonnamenti vari e Azeglio fischiò la fine.
Vedevo Martis da lontano, mi stava fissando, mi odiava.
Ci vollero i supplementari.
Di cinque minuti l’uno.
Le squadre si squagliarono. Al primo minuto Martis riuscì a smarcarsi in avanti e Sticchio lo anticipò con eccesso di foga scagliando un sinistro che s’insaccava alle spalle di un pietrificato Bonetti: era l’ 1-2, con la 2ª B che impazziva di gioia per l’incredibile autorete e le nostre gambe che ci crollarono sotto, ma, come si sa, i supplementari sono una gara a sé, e passarono solo 30 secondi per vedere Farina commettere un evidente fallo d’ostruzione non rilevato da Azeglio sul portiere, permettendo a un incontrastato Sticchio di sdebitarsi immediatamente siglando il 2-2 con un piattone sghembo rasoterra.
Gianfilippo Sticchio non potè esultare perché Andrea Martis venne a schiaffeggiarmi per il fallo che avevo fatto su Cane Ungaretti. Si scatenò una rissa per cui si dovette sospendere l’incontro per circa venti minuti. Ormai stava facendo buio, ma la partita la dovevamo finire e Azeglio minacciò di eliminarci tutti se non ci fossimo ricomposti (senonché Bonetti, a due peli dalla punta del suo naso, lo freddò con un “mo’ co’ dìt, Azzèllio?”). Le discussioni terminarono, e con un astio e un rancore da lotta clandestina giocammo gli ultimi sette minuti di partita ad alta tensione.
Martis era furibondo. Pensava fossimo dei ladri, e io un bastardo.
Noi sentivamo d’avere ormai in pugno la partita e, pur rigidi, spingevamo ancora.
L’orologio segna un minuto allo scadere e – questa è una storia vera, di puro orgoglio sardo – sul nostro pressing asfissiante parte un lunghissimo, disperato rinvio a campanile di Polipo, Martis sulla tre quarti scatta generosissimo verso un pallone impossibile, Bonetti anche, uscendo dai pali in netto vantaggio e altrettanto generosamente, ma è Andrea Martis che arriva per primo, millimetrico, col destro, e impatta il pallone al volo inventandosi una palombella arcuata che scavalca il nostro portiere: Bonetti si gira e s’allunga in tuffo con la mano protesa per cercare di smanacciare in angolo … ma Andrea Martis lo incalza alle spalle! come un falco! lo aggira! è di nuovo sulla sfera! va di testa! anticipa Bonatti, ed è gooooollll gooooooooolll goooooolll!!!
(“Vaffanculo Luchén!!! Sìììììì!!!!!”)
Martis aveva segnato, improvviso come un lampo, allo scadere, con l’inesorabilità di un Golden Gol, il 3-2.
Si era sacrificato per tutta la gara, adesso levitava in corsa sulla fascia e non smetteva di gridare “Gol” e perfino i suoi compagni, dapprima felicissimi, si lasciarono andare in risolini di tenerezza e stupore per la sua esultanza smodata.
Ero ricurvo in avanti, distrutto, con le mani appoggiate alle ginocchia, lo guardavo stupefatto. Sapevo che questo gol me lo avrebbe fatto pesare per tutta la vita, eppure mi resi conto che sotto sotto godevo per lui, e anche molto: aveva segnato all’ultimo minuto, nella porta del suo miglior amico di vita (divenuto acerrimo nemico per la fatalità del calcio) e degli avversari più odiati e più rispettati e ci stava cacciando fuori dal torneo, come in un film.
Mentre Martis stava ancora esultando, Mario Radicchio, cogliendo forse un frammento delle emozioni intense che scorrevano sia in me che in Andrea – come in un corpo solo – mi si rivolse e disse: “Ha fatto il gol della vita”.
Luca Farinotti