La vendetta del Vincio – Maiatico FC 1983, VII episodio (Luca Farinotti)

Campionato 86-87.
Di quell’autunno ricordo un sabato, verso la fine della partita (il crepuscolo d’oro e di nero del San Nicolò era già nel suo vivo): clamorosamente inattesa, subimmo la vendetta del Vincio.
Al venticinquesimo del primo tempo il Bottio entrava coi tacchetti sul ginocchio malato di Titén e procurava al compagno di squadra una ferita non troppo grave ma dagli effetti devastanti a livello psicologico. Titén era già minato dalla vergogna di avere gambe femminili e la prospettiva, in quel momento, di vederle ache deturpate, fece definitivamente precipitare la sua assai precaria “situazione-gambe”. In seguito ai medicamenti prestati dalla mamma del Miodo – una cicciona mostruosa che spalava il fieno del prete – Titén si ricatapultò in campo, strillando a più non posso verso il Bottio: “RITARDATO! SEI UN RITARDATO!!! MALEDETTO RITARDATO!!!”
Pestava i piedi e si dannava in gestacci; continuava: “Ritardato! lo capisci che sei un ritardato?!”
Il Bottio in silenzio stava decidendo se lasciarlo sfogare o tappargli la bocca con un poderoso destro risolutore. Noi ce l’aspettavamo, da un secondo all’altro. Non reagì.
Alla fine del primo tempo don Don uscì con le solite bibite e cibarie. M’informò: all’intervallo Juve uno, Napoli zero, rete di Laudrup (pensai che il Napoli incalzante d’inizio campionato era stato solo un fuoco di paglia e che lo avevamo già ridimensionato come si deve).
Nel secondo tempo il Bottio, risentito con l’ingiurioso Tito, non voleva più giocare in squadra con noi. Del resto, se doveva deflagrarci le gambe, lo facesse almeno da avversario. Il ricatto era chiaro: o con gli altri, o sarebbe andato a casa.
Per salvare l’equità numerica delle squadre si sacrificò mio padre, che fino a quel momento era stato deludente e lasciò il proprio posto al Bottio, guadagnando subito gli spogliatoi – cioè casa mia – con un nonsoché di mestizia sul volto.
Col Bottio nelle schiere nemiche Titén durò circa due minuti e mezzo, poi chiese il cambio: non riusciva a continuare, s’inventò un dolore lancinante alla rotula e andò ad accomodarsi a bordo campo, come al solito.
Non avendo noi alcun giocatore in panca, Claudién, che forse era stanco quanto e più di mio padre – avevano cucinato per duecento persone solo poche ore prima – colse l’occasione per raggiungere il suo pard e si estromise, abbandonando il campo risolutamente e rimettendo le squadre in parità di uomini.
Ora le squadre erano più lunghe e capii subito che potevo sfruttare meglio gli ampi spazi lasciati dai giocatori uscenti.
Sul 2-1 per noi ricevo palla dal portiere – in quel momento il Férda, forse, non so – e parto dritto e pacifico verso la porta avversaria. Mi faccio tutto il campo lasciandomi alle spalle i vari Magistri e Lazzaroni, bruciandoli sullo scatto arrivo a 5-6 metri dalla porta e metto a sedere – Bom! – Asfodelo con una finta di corpo da brividi: davanti a me solo Gianyuri Mora, posizionato da vero portiere, con le braccia protese e le gambe leggermente flesse e divaricate. Mi preparo a scaraventare un missile a filo d’erba, di quelli che in porta guardi e basta, quando, proprio sul più bello, faccione rassegnato di Gianyuri compreso, un Range Rover impazzito, sbucato dal vialetto dietro le vigne del prete, si dirige verso il San Nicolò, ne sfonda la recinzione, abbatte la porta costringendo Gianyuri a un tuffo di salvataggio e frena la sua folle corsa parcheggiando a centrocampo (“Fulmini e saette!!!”, avrebbe detto Carson).
Eravamo a bocc’aperta; in apnea, anche i grandi.
Il Férda corse a raccogliere il pallone. Timidamente ci avvicinammo al fuoristrada, che aveva spento il motore e troneggiava minaccioso nel cuore del nostro prato.
S’apre, suadente, la portiera e ti scende – alta, vamp più che mai, con dei bei riccioloni grossi e fluenti fino al sedere, abbronzata e con due occhialoni da sole alla Monica Vitti – la mamma del Vincio.
Sussulto generale. Lei s’abbassa leggermente le lenti fumé, osserva distrattamente lo squarcio aperto nella recinzione e la porta Est (dove stavo per infilare un gol da cineteca, porca puttana!) espiantata dal suo gippone, poi confronta, scorrendoci brevemente con lontano disprezzo, l’espressione intontita delle nostre facce con l’entità dei danni provocati, valutandone la soddisfacente corrispondenza, si piazza davanti al cofano del suo bestione e attacca un soliloquio – da stordire i sassi – sulla solitudine di suo figlio e sul fatto (secondo lei rilevante) che eravamo dei gran figli di buona donna, maleducati – “no, meglio: ineducati”, si corresse – per aver escluso il malvoluto Vincio (“il mio caro Vincenzo”) dal Parrocchiale.
Andò avanti a ruota libera per cinque minuti, annichilendo ogni nostro tentativo di replica, fino a zittirci definitivamente.
Mai nessuna donna mi era sembrata più maestosa e coraggiosa e bella e desiderabile. La fissavo senza parole e avrei voluto baciarla sul collo e toccarle le tette: aveva sfondato la recinzione dello stadio e abbattuto una porta ma, soprattutto, era totalmente Signora del centrocampo.
Il San Nicolò, in quel momento, era ai suoi piedi.
Gianyuri Mora, che era l’unico adulto degno di nota – Asfodelo, detto Lelo, splendidamente fasciato dalla sua tutina dei tempi eroici del rugby, blu sbiaditssima, attillata fino all’imbarazzo sul pancione e poco più sotto, e il papà del Cristian, detto California Man, erano bambolescamente abbacinati – abbozzò una protesta, in merito alla distruzione della recinzione e della sua porta griffata in acciaio, balbettando un “as sèma capì, eh?”: la mamma del Vincio, sola padrona del campo, gli disse di star zitto e di vergognarsi.
Gianyuri fece silenzio.
Lupo rigurgitava anch’egli silenzioso e il Férda ruminava la formazione della Juve 84-85, per togliersi dall’imbarazzo.
Fu a quel punto che Tito, il quale non amava troppo le donne, ritrovò un’improvvisa vampata di coraggio e scaricò l’ira covata verso il Bottio falcidiatore calciando il Tango ’85 con una prodezza balistica non da lui sullo specchietto retrovisore del Range Rover.
Si sollevarono indignazione e proteste generali, che presto scaturirono in un ripudio plebiscitario di quel gesto ineducato: la mamma del Vincio, con la complicità della sua abbronzatura e della sua entrata alla Briegel, ci aveva messo al muro, e il nostro silenzio – era chiaro – stava ormai celando un sincero, meritato rispetto (soltanto qualcuno sussurrò, distintamente, un “Nuda!”).
Non aspettò che io le confermassi la sicura riammissione del Vincio (penso che fosse quasi imbarazzata dall’approvazione trionfale che tributammo al suo atto vandalico), e ci lasciò imbacciocchiti servitor cortesi di un fine pomeriggio di malia autunnale, ripassando con le ruote sulla porta divelta e diffondendo un vago profumo di mele verdi e Vetiver sul campo da gioco.
La partita terminò lì.
Imparai che una donna con gli occhiali alla Monica Vitti ti può mettere al tappeto.
Il Vincio, soddisfatto o sopraffatto dalla vergogna (chi sa?), non tornò comunque al campetto.
Mentre m’incamminavo verso casa, don Don fece in tempo a rendermi la serata uno schifo: al Comunale, Juve-Napoli 1-3 (finale).
Addirittura Volpecina, o qualcosa del genere, in gol.