San Nicolò Addio – Maiatico FC 1983, X episodio

Un giorno di primavera ci ritroviamo al campetto.

Ci sono molti dei giocatori storici del Maiatico F.C. 1983. Tito, con la sua borsite cronica al ginocchio destro; il Bottio, rustico e granitico come non mai, odoroso di Baby Shampoo Johnson e prosciutto crudo; Andrea Mora, con il suo faccino supponente e indisponente (quando lo guardavi non potevi fare a meno di ricordarti che, a casa, aveva quattro o cinque gatti viziatissimi e obesi, allevati a culatello stagionato minimo 20 mesi, o che, al ristorante, ordinava i piatti più costosi per assaggiarli appena, quando non chiedeva con quella sua faccia di bronzo una paillarde ben cotta, perché “mangio solo quello”).

Poi c’era Claudién, estremamente claudicante, come sempre, e grasso (era stato soprannominato Arthur Antunes Coimbra in quanto si diceva che la sua pancia potesse contenere tranquillamente un giocatore tarchiato della stazza più o meno di Zico). Aveva preso l’abitudine, negli ultimi tempi, di scagliare dei pugni potentissimi sulla testa di Tito, “per svegliarlo” diceva lui. L’ultima volta che lo colpì, Tito era in groppa al suo orrendo Califfo 80 e portava un bel casco bianco e rosso da cross, di quelli con la mascherina antipolvere: il colpo di maglio, perpendicolare, di Claudién riecheggiò nella vallata antistante rimbalzando contro le pareti della casa di Paolo Vicolo, che fortunatamente non rispose (Titén però rimase restio al risveglio).

Quel sabato c’erano anche Pavlén e il Salvo e il Cristian, e perfino il redivivo Vincio, a cui mio padre aveva rotto un braccio lanciandolo in un dirupo qualche mese prima, e che nonostante l’invasione di campo di sua madre, aveva perso l’abitudine di salire alla partita e vederlo al San Nicolò era diventata una rarità.

C’era anche il Lupo, cacofonico come sempre, coi suoi coretti e la sua mania di sniffare benzina dal serbatoio aperto dell’Arizona Gilera 125 che Omer gli aveva regalata per i sedici anni.

Le premesse per un match d’interesse c’erano tutte.

Le squadre, miste, scesero così in campo: Férda, Titén, il Cristian, O’Mora, Grassi e Luchén da una parte; il Vincio, il Salvo, il Bottio, Asfodelo detto Lelo, l’Azzon e Claudién dall’altra.

L’attenzione dei media era concentrata sul mio ipotetico recupero psicologico, ma io ero psichicamente imbolsito dai miei brevi trascorsi nel Sala (3 presenze, 1 gol quasi mio e undici turni di squalifica) e fisicamente stroncato dal tabagismo precoce giovanile per cui, più che sulla sfida eroica tra me e il Bottio, la chiave della gara era da leggere nel confronto sulla fascia tra Mora (che se viaggiava bene era imprendibile) e Lelo, che in difesa era una roccia.

Ma, a sorpresa, è il Bottio a mettersi in marcatura su Mora, dimostrando che ormai i periodi della “Dipendenza” sono lontani. E visto che io sono molto arretrato e spento, si spera almeno – molto azzardatamente – in una giornata di vena di Titén, che dovrebbe giocare più corto e avvicinarsi di più a Grassi, schierato maldestramente in attacco.

Non bastano comunque le buone intenzioni tattiche studiate da Mora, allenatore in campo, per far fronte all’arrembante voglia di pestare del Bottio e di vincere dei nostri avversari più piccoli, ormai abbastanza cresciuti per tenerci testa e galvanizzati dall’esperienza di Lelo.

Senza la mia consueta creatività e le mie accelerazioni – “Luchén, giochi da fermo, cazzo!!!”, mi ripeteva Mora – fatichiamo per tutto il primo tempo, esprimendo un ritmo troppo basso per sorprendere l’organizzata banda del Vincio, che mette in campo una cerniera difensiva invalicabile.

La buona volontà di Lupo si spegne presto nella frustrazione dei suoi due scarponi, Titén come sempre gioca timidamente, risparmiandosi ben oltre il lecito. Solo O’Mora crea qualche pericolo: al 6’ si libera del Bottio con un giochetto ricorrente nel suo repertorio, nascondendo il pallone sulla scivolata veemente del Bon Jovi nostrano, e proiettandosi in una scorriattata sulla fascia terminata con un tiro di piatto non troppo pericoloso (uno dei pochi difetti di Mora, tirare sempre e solo di piatto destro).

Al 12’ ho l’occasione buona sul sinistro, ma arrivo in ritardo all’appuntamento col pallone e O’Mora per la prima volta mi urla: “Non servi lì!!!” (me lo ripeterà parecchie volte nel volger dell’incontro e della vita…).

Piano piano gli avversari cominciano a uscire dal guscio e si rendono pericolosi, impegnando severamente un sacrificato Férda tra i pali con una sciabolata dalla distanza del Salvo.

Mora, avvertendo il classico campanello d’allarme, invita tutti ad alzare il ritmo, ottenendo solo di farsi mandare affanbagno, così che sono ancora i ragazzi di Lelo a sfiorare la rete con un tiro sotto misura di Claudién su cross dell’Azzon: bordata micidiale e miracolo del Férda che alza il pallone in angolo. Nessuno più tra noi sfrutta le fasce laterali. Ci ammucchiamo tutti al centro in cerca di qualche pallone giocabile.

Il disco di Mora è sempre lo stesso: “Luchén, non servi lì!!!” (mamma, quanto lo odiavo).

In casi del genere può essere solo una prodezza isolata a sbloccare la partita. Ma da chi poteva venire? Non certo da un eternamente svuotato Titén, o da un irriconoscibile Luchén, da un improponibile Grassi o da un evanescente Cristian. O’Mora da solo non sembrava poter dare una svolta decisiva alla gara. L’unica, sempiterna sicurezza continuava ad essere il Férda che, qualunque ruolo ricoprisse, era disposto a sputare sangue.

Nella ripresa provo a spostarmi in difesa, cercando di rifiatare e sfruttando la mia lentezza per compiere delle entrate pesantissime ai danni di Claudién e dell’Azzon. Tito si sposta centrattacco, cercando di sorprendere gli avversari (come non detto). Tito e Grassi giocano – e sbagliano tutto – uno con eccesso di irruenza ed eccitazione, come al solito fuori tempo, l’altro frenato per assillanti motivi di calzature.

Il capolavoro alla rovescia si compie al 24’: fallaccio di Lelo, in area, ai danni del Cristian, che vola via, rigore.

Sul dischetto (virtuale, perché mancava il gesso per disegnarlo) breve conciliabolo: io faccio spallucce e m’allontano, non è la mia giornata, Tito non si prenderebbe a morire una tale responsabilità, gli altri si spazientiscono. Arriva, dalle retrovie, il Férda: “Lo Tuiro IO, cuazzo!”

Lunghissima rincorsa, passi pesanti e rimbombanti sull’erba del San Nicolò, falcata ampia e possente, da cavallone nitrente e tiro di collo pieno: una cannonata spaventosa, il Vincio si ripiega su se stesso coprendosi la faccia coi guantoni fucsia fosforescente, le nostre facce sono sospese in pochi centesimi di secondo…traversa, traversa piena.

Il pallone rimbalza in campo, ma tutti sono ancora con gli occhi e la mente al tiro del Férda per potersi proiettare velocemente sul pallone, che viene spazzato sul ramo di un abete dal Salvo, in rinvio liberatore.

La traversa sta ancora vibrando, metallica.

Nonostante il calorosissimo apporto del pubblico – la Sèvi tuttatette, una tal Barbara con un culo da schianto e il papà del Miodo, che ci guardava da star seduto sul trattore – la partita scorre deludente fino ai minuti finali, con una squadra che non riesce ad alzare il ritmo su toni tali da poter affondare il colpo, e con l’altra che, mostrando decise carenze tecniche, si affida a qualche rudezza di troppo, come il fallo da rigore di Lelo che aveva costretto il Cristian a richiedere le cure mediche dell’Elena, la perpetua (gli aveva portato, cattiva come la peste, un fazzoletto imbevuto d’aceto da metter sul ginocchio, blaterando maledizioni in idioma salese stretto al nostro indirizzo).

A pochi istanti dal termine, su appoggio invitantissimo di O’Mora, mi faccio anticipare dal Vincio, che si tuffa alla disperata abbrancando il pallone in presa sicura, a terra. Irritato dal mio consueto essere in ritardo e dalla faccia da schiaffi del Vincio, sono preso da un raptus e m’avvento sulla sfera, ben stretta tra le mani del portiere, cominciando a calciare dapprima sui guanti, poi sul petto del Vincio che cerca ostinatamente di mantenere la presa, ma che dopo quattro o cinque colpi insistiti e belli forti lascia finalmente la palla, che ruzzola fuori da lui come da un utero.

“L’hai capita, porca eva!”, sentenzio mentre calcio in gol, a colpo sicuro. Sulla linea di porta interviene il Salvo, ma nel tentativo di rinviare in angolo insacca proprio sotto l’incrocio dei pali: splendida autorete.

Il mio chiaro intervento falloso non viene rimarcato da nessuno. Solo il Vincio in un accenno di crisi isterica corre verso di me per colpirmi alle spalle, ma è fermato dal Lupo.

Non mi volto, superiormente, a guardare. Gol valido.

Allo scadere prova a realizzare il Bottio con un tiro forte, a mezz’aria, ma il granitico Férda non si fa cogliere impreparato.

 

 

LE PAGELLE

 

 

Férda 7,5:     poche ma importanti parate, e soprattutto una contagiosa sensazione di sicurezza, che fa bene ai compagni e male agli avversari. Un cuor di leone.

 

Titén     5:     un fantasma, e quando sbaglia i disimpegni è colpa sua e non sfortuna, perché gode di molto spazio concesso dagli avversari.

 

Cristian 5:     da assolvere per l’impegno, non per il rendimento, incostante e poco incisivo. Irritante.

 

Grassi 5,5:    sta troppo al centro, invece di allargarsi a sinistra, non riuscendo a rendersi mai utile.Vaporoso.

 

Mora 6:         cerca di dare profondità al gioco con le sue solite “scorriattate” sulla fascia, e anche quando arretra a regista cerca di inventare l’assist vincente, ma è poco supportato dai compagni.

 

Luchén 4,5:  molle e sempre in ritardo negli inserimenti offensivi, fatica a trovare la posizione, da che l’andreamoresco “non servi lì!”, motto costante della gara. Ha il solo merito di segnare il gol, peraltro spudoratamente irregolare, che decide l’incontro. Antisportivo.

 

 

Vincio 7:      gioca da grande portiere, con i guanti e tutto il resto, è sicurissimo anche nelle uscite pericolose, su una delle quali viene bersagliato da una serie, non rilevata, di calci da cui scaturisce il gol. Soffre troppo l’antipatia di tutti, compagni compresi. Un emarginato…

 

Salvo 5:        si limita a presidiare la propria area, poi qualche conclusione dalla distanza e niente più. Balórd.

 

Lelo 6:          un Luchén quasi inesistente facilita il suo compito di tener pulita l’area; poi controlla le situazioni scabrose con esperienza.

 

Bottio 6,5:    il vecchio “Bottio-Coniglio-ti-taglieremo-il-grillo!” non c’è più: abbocca alle finte di Mora in diverse occasioni pur difendendo coriacemente, ricorrendo spesso al fallo, ma questo era il suo compito.

 

Azzon 4,5:    sbaglia dall’inizio alla fine, il peggiore in campo.

 

Claudién 5:   non si vede quasi mai, anche perché, praticamente, non si muove dalla propria virtuale area di gioco di un metro quadro; gli arrivano un paio di buoni palloni, che calcia con la proverbiale potenza ma peccando nella mira. Zico, imprigionato nella sua pancia, urla vendetta schifato.

 

Arbitro:        direzione di parte, sfacciatamente. Bravo a fischiare il rigore

Grassi 3        fallito dal Férda, terribile nel convalidare il gol di Luchén.

(dopo il 5,5

da calciatore)

 

 

***

 

 

LA MOVIOLA

 

(sono disponibili solo immagini da dietro la porta con la telecamera bassa)

 

Maiatico A-Maiatico B  1-0   84’ Salvo (autogol)

 

  • intervento di Lelo che travolge il Cristian in area: rigore sacrosanto che sarà poi fallito dal Férda.

 

  • spiovente di Mora, teso, dal fondo, per Luchén a centro area, ottima scelta di tempo del Vincio, che interviene in tuffo abbrancando la sfera, si scorgono falli violenti e reiterati (deliberati?) di Luchén, che scalcia il Vincio fino a fargli perdere il pallone per poi scagliare il tiro che provocherà l’autogol decisivo: rete da annullare e giocatore da espellere (sempre dal basso si nota un silacco piuttosto untuoso scagliato da Luchén sulla felpa Best Company del Vincio, accasciato a terra).

 

 

***

 

AI MICROFONI

 

Lelo:           A sèma stè scalognè, la partìda l’è falsèda, ànca s’l’è stè corét anulèr mìa al gol, parchè ’l Vincio l’à fàt bàla tratgnùda e Luca l’à dovù scalcèr par tòrla e pò butèrla déntor, m’am dispièsa l’istés.

 

Bottio:        Ciao mamma, KHM KHM…

 

Tito:           (fuori campo) Ohi ohi, il mio ginocchiètto…

                   (in diretta) Come sempre sono sceso in campo in condizioni menomate, per cui in netto svantaggio rispetto agli altri, più in forma di me e sicuramente più rilassati. Io avevo l’handicap di aver dovuto studiare tutta la settimana e non potevo certo essere concentrato e quindi d’aiuto ai compagni più di quanto mi permettessero le mie condizioni…

 

DOMANDA – (di Big Tits Sèvi, inviata speciale per Blitz)

 

Ma non l’abbiamo vista poi così male, anzi…

 

  1. No no, vi sbagliate, v’assicuro ch’ero veramente al mio minimo…

 

Arriva Luchén:

 

Visto che gol?! Ero dietro a giocar male, poi m’è venuto il lampo di genio alla Peirò. Son trop codìn!

 

È la volta di Claudién:

 

Ragàs, ma la Sèvi, con ch’il dò tètti lì, l’as farà incioldèr?

 

 

***

 

Cala il sipario sul San Nicolò, si spengono i riflettori di un altro sabato pomeriggio trascorso a scalciare il pallone e gli avversari, a scarpinare e a scorriattare, a mandarsi affanculo ogni trenta secondi.

Sul campo, come sempre, i segni dei tacchetti, l’odore sudato dei suoi eroi che se ne separa poco a poco, mescolandosi all’aria colma d’ossigeno fresco e rotondo.

Il vago sapore di calcio di cui erano imbevuti testimoni i fili d’erba, capitani delle nuvole del San Nicolò, scemava con la sera.

Fu, quella, l’ultima partita mai più giocata dalle compagini del Maiatico F.C..

Una partita, a posteriori, con la stessa importanza di una finale di Coppa dei Campioni e/o di Coppa del mondo, ma – ripeto, purtroppo – solo a posteriori.

Nessuno lo sospettava e, a saperlo, forse, tutti avrebbero dato il massimo, avrebbero giocato la partita della vita, col vigore potente di un drammatico addio, con la gioia nel petto e le lacrime sulle guance, con il cuore più grande che potessero e le gambe più veloci e leggere del vento. Avremmo potuto chiamare il pubblico, col Miodo e tutti i villici a vederci, e le ragazze di Maiatico, e Fulaia – sempre che fosse stato in campo – avrebbe dato l’anima pur di fare l’unico gol della sua carriera, magari in rovesciata, e il Salvo avrebbe sicuramente fulminato il portiere avversario con un colpo di tacco alla Madjer, ma non fu così.

Non ci furono i tempi supplementari, interminabili, sotto la luna, non ci fu il pubblico, non ci furono le lacrime e nessuno si scambiò le maglie.

Fu più che normale, quasi squallida, la finalissima di tutti i tempi nello stadio più bello del mondo: coi giocatori a mezzo servizio, alcuni al risparmio, altri ad aspettar la fine per farsi una Marlboro nel fienile.

Motivi futili, o disamore, o “dài, giochiam la settimana prossima, che oggi andiamo a vedere Rambo 2 all’Orfeo”, e non si giocò mai più.

Almeno ci fosse stata, prima dell’incontro, la storica, leggendaria frase “Chi vince questa ha vinto tutto!” a render meno amaro il senno di poi.

 

 

Lo Stadio più bello del mondo, luca farinotti, Maiatico

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